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Per Aspera Ad Veritatem n.13
La disfatta di Verdun: un errore di strategia

Kenneth STRONG



Nel 1914 le speranze tedesche di una vittoria rapida e schiacciante a ovest erano legate al cosiddetto piano Schlieffen, escogitato dal conte Schlieffen, capo dello stato maggiore generale dopo il 1890, un personaggio di cui lo stato maggiore celebrava regolarmente il compleanno con grande solennità. Il conte Schlieffen aveva elaborato il suo piano nei primi anni del Novecento e l'aveva consegnato nel 1906 al proprio successore, il generale Moltke. Esso riguardava l'eventualità di una guerra su due fronti e proponeva come soluzione che in tal caso il grosso delle forze tedesche venisse concentrato a ovest per infliggere un colpo decisivo alla Francia in modo da eliminarla dal conflitto prima che i russi portassero a termine la loro lenta e laboriosa mobilitazione e fossero in grado di intraprendere un'azione efficace sul fronte orientale. Il successo dell'operazione tedesca dipendeva perciò dalla perfetta conoscenza delle misure di mobilitazione degli alleati e dei tempi da essi impiegati per effettuarne le varie fasi. Questi dati Nicolai fu in grado di fornirli. Nei dettagli il piano divideva il fronte tedesco d'occidente in due settori. A quello sud sarebbe stato assegnato un minimo di truppe di prima linea, che avrebbero dovuto rimanere sulla difensiva. Il settore nord, invece, sul quale sarebbe stato spiegato il grosso dell'esercito tedesco, doveva effettuare un gigantesco movimento aggirante, attraversare il Belgio e sfociare in Francia. L'estrema ala destra doveva piegare a sud in direzione di Parigi, e mentre procedeva l'avanzata, truppe dal fronte sud sarebbero state portate a rinforzare l'offensiva del nord in modo da sgominare completamente l'esercito francese, quello belga e il contingente inglese che si era unito ad essi.
Secondo Schlieffen questa operazione e la conseguente sconfitta della Francia potevano essere portate a termine nello spazio di sei settimane. Durante questo breve periodo i russi sarebbero stati tenuti a bada da non più di una decina di divisioni tedesche, rafforzate dal contingente dell'alleata Austria-Ungheria. In pratica, però, da quest'ultima non c'era da sperare gran che. Il colonnello Alfred Redl, ex capo del servizio segreto austroungarico, era stato al soldo della Russia per dieci anni, ed esattamente fino al 1913, allorché venne smascherato. Nel corso delle indagini sulla sua attività venne fuori che ben pochi erano i segreti di importanza militare che egli non avesse passato ai suoi padroni, per cui ad esempio i russi erano in possesso di tutti i particolari del piano dell'operazione con cui Vienna intendeva attaccare e annettersi la Serbia. A parte il fatto che, come spia, Redl era eccezionale, la sua posizione, inoltre, gli permetteva di essere anche un «agente di prestigio», e nella sua veste di capo del servizio segreto riuscì perfino a impedire alla monarchia austroungarica di giungere a una valutazione ragionevole delle forze e dei piani russi. Ben pochi sono quelli che hanno eguagliato le sue gesta, ma la sua fine, come quella di molte altre spie più o meno in gamba, fu tragica. Redl era un omosessuale, e aveva bisogno di molto denaro per l'alto livello di vita che amava tenere e per soddisfare i suoi desideri, e i suoi capi russi seppero sfruttare abilmente queste sue esigenze. Messo di fronte a prove concrete ricavate dalla censura della sua corrispondenza, egli confessò e chiese che gli fosse permesso di spararsi, cosa che fece nel maggio 1913 nell'Hotel Klomser di Vienna. E naturalmente le autorità austroungariche misero subito a tacere l'intera faccenda.
Ci sarebbe molto da dire a favore dell'originaria semplicità del piano Schlieffen, senonché nel 1914 esso aveva già subito delle varianti. Meno duro, e forse anche meno azzardoso e ottimista del suo predecessore, Moltke non seppe opporsi alle pressioni degli ambiziosi comandanti delle armate del sud e finì così, tra una cosa e l'altra, per ridurre la proporzione tra le forze del nord e quelle del sud che nel piano Schlieffen era di otto a uno a tre a uno.
Il 16 agosto sette armate per un totale di un milione di uomini si trovarono schierate da nord a sud lungo le frontiere col Belgio e con la Francia. Delle due armate chiave, la prima, a nord, era comandata dal generale von Kluck, un individuo ambizioso e senza scrupoli, che all'età di sessantotto anni conservava ancora un piglio e una grinta non indifferenti. Nella fase iniziale egli si trovò temporaneamente agli ordini del comandante della II armata, generale von Bulow, una soluzione tutt'altro che felice in quanto Kluck non aveva una grande opinione di Bulow, che riteneva lento, eccessivamente cauto e pessimista, uno che si era fatta una grande reputazione in tempo di pace per la sua scienza militare ma che sul campo non aveva esperienza (1) .
Moltke e il suo stato maggiore, compreso il tenente colonnello Hentsch, capo della divisione eserciti stranieri, avevano posto il loro quartier generale a Coblenza, e cioè molto addietro rispetto al fronte. Moltke era partito da Berlino con un treno speciale, proprio come ventisei anni dopo avrebbero fatto i suoi successori. E con lui c'era il Kaiser, accompagnato dagli uomini del suo gabinetto militare, di quello navale e di quello civile: generali, ammiragli e ministri, ognuno col proprio personale e con i propri consiglieri ed esperti. C'erano inoltre diplomatici, uomini di corte, segretari, ordinanze e servitori d'ogni specie: insomma una tal pletora di gente che solo una grossa città poteva ospitarli convenientemente.
Per Moltke sarebbe stato molto più utile che il suo quartier generale si fosse trovato lontano dal Kaiser, il quale tra l'altro era stato imprudentemente portato a pensare di esser dotato di chissà quali capacità militari, ma una soluzione del genere non fu possibile. Nel 1914 la radio era ancora ai suoi primi passi, tant'è vero che il comando supremo tedesco possedeva un solo apparecchio, e i marconigrammi impiegavano di solito, quando si riusciva a farlo funzionare, più di dodici ore per giungere a destinazione, e spesso dovevano essere ripetuti molte volte prima che se ne potesse comprendere approssimativamente il contenuto. Ma anche le comunicazioni telegrafiche e telefoniche erano scarse, per cui i mezzi per controllare l'operato di certi comandanti di unità di prima linea piuttosto decisi a fare di testa loro erano pochi, anche se il comando supremo sapeva bene quello che stava succedendo sul fronte.
Le operazioni cominciarono ai primi di agosto. Il comando supremo parlò di successi schiaccianti in Belgio e nella Francia settentrionale, ma di prove tangibili ve n'erano poche, mentre qualcuno avanzava invece dei dubbi. Ad esempio Kluck informò esplicitamente Moltke che, nonostante da parte tedesca si gridasse tanto vittoria, tutti i comandanti d'armata tranne lui stavano chiedendo aiuto a gran voce. In effetti i tedeschi stavano perdendo tempo. La chiave del piano Schlieffen stava nella rapidità dell'avanzata, la quale invece cominciava a segnare il passo. I motivi di questo rallentamento erano diversi. Tanto per cominciare, il Corpo di spedizione inglese giunse sul fronte prima del previsto, poi i belgi erano riusciti a sfuggire alla morsa tedesca e ad attestarsi nei forti di Anversa, e infine un contingente di truppe era stato dislocato sul fronte russo. Ciò nonostante, la vasta manovra di accerchiamento continuava, provocando però un continuo allungamento delle linee di comunicazione, mentre le forze in grado di portare avanti l'avanzata stavano gradualmente assottigliandosi. Cominciarono a giungere notizie che truppe francesi venivano trasferite dal fronte sud alla zona di Parigi, e questo poteva costituire una minaccia per i fianchi dello schieramento tedesco.
Nel frattempo il comando supremo tedesco si era trasferito, armi e bagagli, a Lussemburgo, ma l'atmosfera che vi regnava non era delle migliori. Moltke cominciava a rendersi conto che i suoi comandanti d'armata erano poco al corrente delle cose. Kluck, in particolare, ignorava chiaramente la situazione di tutti gli altri fronti tranne il suo, e neppure di questo conosceva a fondo tutti i particolari. Quello di cui Moltke non si accorgeva era che lui stesso ne sapeva meno degli altri. Le sue armate stavano avanzando, nella più beata ignoranza, entro un gigantesco saliente che si estendeva da Parigi a Verdun, con i problemi logistici che aumentavano ad ogni passo e truppe francesi che si ammassavano sul fianco destro di Kluck. Il suo primo dovere era quello di proteggere i fianchi dello schieramento tedesco, e infatti il 4 settembre la I e la II armata ricevettero l'ordine di fermare quella che avrebbe dovuto essere l'avanzata decisiva, e di piegare in direzione di Parigi. Per quelli che si trovavano sul campo questi ordini erano davvero incomprensibili: portarsi sulle posizioni indicate da Moltke voleva dire per Kluck ritornare sui propri passi e lasciar perdere gran parte del territorio conquistato.
Fu a questo punto che Moltke decise di mandare Hentsch alla I armata per spiegare le ragioni degli ordini emanati dal comando supremo. A sua volta Hentsch sarebbe stato in grado di informare Moltke sulla situazione di quel settore del fronte, e così forse si sarebbe potuto risolvere qualcuno dei grossi e sempre più preoccupanti interrogativi sulla situazione generale delle operazioni.
Hentsch era un sassone che sia come fisico sia come temperamento aveva molti tratti in comune con Moltke, essendo per natura depresso e soffrendo di disturbi cronici alla cistifellea. Nel 1914 era ancora giovane per il grado che ricopriva, ma soprattutto aveva, nell'aspetto, qualcosa di diverso dal prototipo dell'ufficiale tedesco. (...) Non ci risulta che fosse dotato di particolari doti d'intelligenza; però era in grado di fare il punto di una situazione e di esporre le proprie idee in modo convincente (...). I suoi colleghi lo consideravano una persona onesta di cui si poteva avere la massima fiducia, mentre lui trovava alquanto difficili i rapporti con loro, per cui gli capitava di non essere sempre a conoscenza delle varie correnti di idee e delle voci che circolavano nell'alto comando.
Il 5 settembre Hentsch partì con un collega per raggiungere l'ala destra dello schieramento tedesco. Scoprì che il comando di Kluck era molto più a sud di quanto si aspettasse, ma venne a sapere che il generale, nonostante la sua irritazione con il comando supremo, aveva già adottato qualche misura per proteggere il fianco della propria armata. Hentsch spiegò la situazione come la vedeva il comando supremo. Sul fronte sud si erano avute grosse perdite nemmeno lontanamente ricompensate dai pochi e magri guadagni ottenuti. Non solo, ma ora si sapeva per certo che i francesi erano riusciti a concentrare grosse forze nell'area di Parigi. Erano notizie che giungevano del tutto nuove a Kluck, il quale si era immaginato di avere davanti a sé un nemico in fuga disordinata sul punto di crollare, soprattutto sotto l'incalzare della sua I armata e forse anche in parte di quella di Bulow; e dietro di sé un comando supremo pieno di paure che, non essendo a contatto con la situazione, insisteva in inutili misure precauzionali.
La discussione si spostò sull'urgenza della situazione. Kluck riteneva che non vi fosse necessità di fare le cose in gran fretta. L'offensiva francese nel settore di Parigi non era una cosa imminente, per cui i tedeschi avrebbero potuto effettuare gli spostamenti di truppe con relativa calma. Questo era l'opposto delle direttive di Moltke, ma Hentsch non sollevò obiezioni. Quello che né lui né Kluck sapevano era che il tempo non era dalla loro parte, e che contingenti francesi e inglesi stavano prendendo posizione per sferrare quel grosso contrattacco che sarebbe cominciato la mattina dopo, 6 settembre. Kluck si risentì aspramente che non si fosse riusciti a sapere nulla della preparazione di una tale offensiva, che non si fossero debitamente interrogati i prigionieri, che il servizio segreto non avesse scoperto niente in anticipo, che nessuno l'avesse messo minimamente sull'avviso.
Egli ritenne tuttavia di dover rinforzare il suo fianco destro, e scelse per questo compito le unità che sul suo fianco sinistro servivano al collegamento con l'armata di Bulow. Il risultato di questa decisione fu quello di aprire una breccia tra le due armate, lasciando così scoperto proprio il settore del fronte davanti agli inglesi. Quando gli venne fatta osservare la cosa, rispose arrogantemente che gli inglesi non gli facevano paura: erano già stati battuti diverse volte e non si sarebbero lasciati indurre facilmente ad attaccare. Comunque, anche ammesso che si fossero decisi a farlo, un po' di cavalleria di copertura e un po' di fanteria le aveva sempre a portata di mano per tamponare la falla. Solo che la falla avrebbe avuto un'ampiezza di quaranta chilometri, cioè qualcosa che non si poteva pensare di riparare con una cavalleria che aveva gli animali sfiniti.
Hentsch lasciò Kluck e la sera del 6 settembre era già di ritorno al comando supremo, dove fece a Moltke un resoconto di prima mano di quello che aveva detto e fatto nella sua visita alla I armata, richiamando la sua attenzione sulla breccia che in seguito alle decisioni di Kluck si stava creando tra la I e la II armata. Moltke però poteva farci ben poco, non avendo a immediata disposizione truppe di riserva. E a parte questo, i russi in quel momento gli stavano dando dei grossi grattacapi, per cui pensò di lasciare che quelle prime donne dei suoi generali se la cavassero da soli dai guai in cui si erano andati a cacciare. Le truppe tedesche potevano venire temporaneamente fermate, potevano anche subire dei rovesci, ma avrebbero ben presto ripreso in mano l'iniziativa. Ancora un'azione decisiva, ancora uno sforzo e la campagna sarebbe terminata. E anche nell'ipotesi che avesse avuto delle riserve, si disse Moltke, perché interferire nelle operazioni di uomini che sapevano indubbiamente il fatto loro?
Ma Bulow, nominalmente ancora responsabile dell'armata di Kluck, vedeva la situazione con minore ottimismo. Fece sapere infatti senza mezzi termini che era necessario studiare il modo di prevenire una possibile breccia del nemico tra la sua armata e quella di Kluck. Dal ritorno di Hentsch erano passate solo ventiquattr'ore, ma i rapporti che giungevano al comando supremo erano talmente contraddittori che Moltke ritenne ancora una volta di dover mandare qualcuno sul posto a vedere come stavano effettivamente le cose, e ancora una volta la sua scelta cadde su Hentsch. Ora, il comando supremo era pieno di ufficiali in grado di portare a termine una missione del genere, e in realtà, come lo stesso Hentsch fece osservare non senza un certo risentimento, a rigor di logica l'incarico avrebbe dovuto essere affidato a un ufficiale della sezione operazioni. Egli si sentiva infatti tutt'altro che lusingato di questa seconda prova di fiducia e volle chiarire in termini ben precisi la responsabilità che sarebbe venuta a gravare sulle sue spalle. Prima di lasciare il quartier generale ebbe una lunga conversazione a quattr'occhi con Moltke, ma sembra non esista nulla di scritto su quanto si dissero, e ci fu anzi una notevole polemica sulle istruzioni che Hentsch avrebbe ricevuto. Da una parte si affermava - e a sostenere questa tesi era soprattutto il tenente colonnello von Tappen, capo della sezione operazioni di Moltke - che Hentsch non aveva alcun potere di autorizzare una qualsiasi ritirata delle armate tedesche e che la sua era semplicemente una missione di accertamento dei fatti. Dall'altra Hentsch sostenne che aveva pieni poteri per agire di sua propria iniziativa e che aveva la facoltà, qualora i movimenti di retroguardia fossero già in corso, di utilizzarli per tamponare la breccia tra la I e la II armata. In pratica sembra molto probabile date le condizioni psicofisiche di Moltke e lo stato di confusione che regnava al comando supremo che Hentsch abbia ricevuto istruzioni piuttosto ambigue: ci sarebbe anzi da meravigliarsi del contrario. Egli fu comunque specificatamente autorizzato a dare istruzioni vincolanti in nome del comando supremo.
Egli lasciò il quartiere generale con due compagni la mattina dell'8 settembre, e questa volta, cosa assai sorprendente data la grande urgenza della situazione, fece tutto un lungo giro per arrivare al fronte della Marna, recandosi prima alla V, IV e III armata e solo dopo procedendo a nord verso le unità di Bulow e di Kluck. Le sue prime tre visite furono soddisfacenti: le truppe avevano un morale alto, stavano combattendo con vigore e nei comandi c'era un'atmosfera di ottimismo. Telefonò a Moltke per dirgli che tutto andava bene e che la situazione si presentava favorevole.
Quello stesso giorno 8, a sera inoltrata, giunse allo Chateau de Montmort, dov'era il comando della II armata. Bulow era appena tornato da una visita al fronte, ed era stanco e preoccupato. Sotto la forte pressione nemica l'ala destra della sua armata aveva già dovuto cominciare a cedere. Tutti sapevano, dalle manovre del tempo di pace, che Bulow credeva nella tattica «a contatto di gomito» e che nei suoi ordini operativi fissava immancabilmente dei confini ben definiti perfino alle sue unità più piccole. Se fosse stato per lui, fianchi scoperti non ce ne sarebbero stati. All'età di sessantotto anni uno non si mette a correre gravi rischi, e per lui era d'importanza fondamentale che la III e la I armata, rispettivamente alla sua sinistra e alla sua destra, si tenessero a stretto contatto con le sue forze e non lasciassero spazio a brecce. A suo parere l'unico rimedio alla situazione era quello di una ritirata coordinata delle armate. La discussione andò avanti fino alla mezzanotte, e a questo punto la riunione si sciolse senza che si fosse concluso nulla di preciso. Hentsch, per quanto deluso dall'evidente mancanza di spirito combattivo delle truppe tedesche e dei loro comandanti, riferì a Moltke che la situazione della II armata era sì grave, ma non disperata.
La mattina dopo Hentsch dovette essere in piedi di buonora per una riunione alle 5,30. I rapporti della notte non avevano aggiunto gran che a quello che già si sapeva. Gli umori erano ancora un po' giù, ma sembra che Hentsch fosse arrivato a convincersi che l'unica soluzione per le due armate era quella di ritirarsi su linee convergenti in modo da ricostituire un fronte continuo; perciò, quando alla fine Bulow annunciò che intendeva ordinare alla II armata di ritirarsi al di qua della Marna, manifestò la sua approvazione e partì.
Egli doveva ora fare quasi un centinaio di chilometri per raggiungere il comando della I armata a Mareuil. La sua macchina si trovò di fronte a ostacoli a non finire, e gli ci vollero sette ore per compiere il tragitto. Le strade erano infatti continuamente ostruite da convogli di autoambulanze e da unità già in ritirata, per cui ogni tanto Hentsch doveva scendere e aprirsi un varco di persona. Solo dopo mezzogiorno giunse a destinazione, e non si sa per quale motivo non vide nemmeno Kluck, che tra l'altro si lamentò di questa indelicatezza, ma spiegò la situazione della II armata al suo capo di stato maggiore, il generale von Kuhl, che Hentsch conosceva bene per essere già stato ai suoi ordini. La confusione che aveva visto coi propri occhi durante il viaggio non aveva fatto che aumentare il suo pessimismo; per cui disse a Kuhl che dal momento che la II armata si sarebbe ritirata tra poco, anche alla I non restava che uniformarsi, e tracciò sulla carta del capo di stato maggiore le linee su cui le due unità avrebbero dovuto attestarsi. Il generale Kuhl insisté che la situazione della I armata non era affatto disperata, anche se sulla sinistra, quando avevano dovuto appoggiare Bulow, c'era stato qualche arretramento. Ma per il resto le loro truppe si trovavano ora nella situazione di poter parare una minaccia francese, e gli inglesi, che in quel momento stavano avanzando lentamente, non presentavano grossi problemi. Prima di notte la vittoria poteva essere in mani tedesche, e Hentsch e Bulow non avrebbero più avuto bisogno di prendere decisioni con la paura in corpo.
Molto volentieri Hentsch si sarebbe lasciato rassicurare da queste dichiarazioni, ma aveva visto e sentito cose troppo disastrose per poter credere ora che un successo degli uomini di Kluck fosse in grado di ristabilire la situazione generale. La II armata stava già ritirandosi e la confusione aumentava di ora in ora, per cui egli insisté, quale rappresentante di Moltke, che la I si ritirasse in direzione nordest. Kuhl, andando probabilmente contro a quello che riteneva più giusto, si lasciò persuadere dagli argomenti di Hentsch e partì per rintracciare il suo comandante, il generale von Kluck. Dato il carattere irascibile che gli conosciamo, non ci è difficile immaginare la sua reazione all'udire le proposte di Hentsch. Tuttavia, in parte per il rispetto verso un membro dello stato maggiore generale, in parte forse perché lo mandava Moltke, dette l'ordine di ritirarsi. E fu in effetti quest'ordine che permise agli alleati di vincere la battaglia della Marna, e che in un certo senso determinò la sconfitta finale della Germania nella prima guerra mondiale.
Hentsch, lanciato il suo siluro contro la I armata, riprese la via del Lussemburgo, seguendo lo stesso percorso ma in senso contrario. Giunto sul fronte sud, si trovò davanti un nuovo problema. La ritirata delle armate del nord nella scala da lui indicata avrebbe scoperto il fianco della III armata, e una conseguente ritirata di quest'ultima avrebbe scoperto quello della IV, e così via. Hausen e il duca Albrecht non fecero difficoltà, ma il principe ereditario, comandante della V armata, aveva ottenuto alcuni successi nei pressi di Verdun e non era affatto disposto a troncare l'azione e operare un'improvvisa ritirata. Egli chiese brutalmente a Hentsch se avesse un'autorizzazione scritta per fare simili proposte in nome di Moltke, ed Hentsch, che naturalmente non aveva credenziali del genere, dovette riprendere mogio mogio la faticosa via verso il comando supremo senza aver potuto risolvere questo inquietante problema.
Nel frattempo Moltke aveva spiegato la situazione al Kaiser, che rimase scosso dalle notizie che gli venivano date e si lagnò che fino a quel momento non gli avessero parlato che di vittorie; ma poteva comunque considerarsi più fortunato del pubblico tedesco il quale venne a sapere dei disastri solo il 23 settembre. Quello di andare a informare il suo padrone era un compito che a Moltke non era mai piaciuto, soprattutto se si tiene presente che dal punto di vista militare non lo stimava affatto; ma quello fu l'interrogatorio più difficile che avesse mai affrontato. Personalmente lui non aveva dubbi sull'opportunità della ritirata, anche se il suo stesso capo della sezione operazioni e molti altri ufficiali dello stato maggiore generale si erano dichiarati contrari.
Tuttavia, il rapporto che gli fece personalmente Hentsch al suo ritorno risollevò un po' l'animo di Moltke. Poiché il nemico avanzava lentamente, la ritirata non avrebbe presentato grandi difficoltà. E probabilmente uno sganciamento limitato, seguito da un consolidamento e da un raggruppamento, non avrebbe affatto significato un disastro. Forse di lì a poco, e addirittura nel giro di due o tre giorni, le armate tedesche avrebbero potuto riprendere l'offensiva. Certo, c'erano molte possibilità di ingannarsi, dato che il piano di Hentsch richiedeva di agire. La sua principale raccomandazione fu che Moltke si recasse di persona e subito a ispezionare il fronte, che vedesse coi propri occhi come stavano le cose, confermasse le misure già prese, affrontasse il problema posto dal rifiuto delle armate del sud di dare l'ordine di ritirata e studiasse i piani delle future operazioni.
Moltke partì per il fronte, accompagnato dal suo seguito, la mattina dell'11 settembre. Alla V armata, per indurre il principe ereditario a cessare l'offensiva ci volle un ordine formale, né egli fu gran che entusiasta di prendere ordini da quello che più tardi descrisse come un uomo finito che aveva dovuto fare sforzi sovrumani per non scoppiare in lacrime. Alla III armata il comandante generale Hausen era a letto malato, e c'era una gran confusione e un non minore abbattimento. Da Bulow, alla II armata, vi fu una discussione lunga e accesa, ma i piani di ritirata non vennero modificati e non venne fatto accenno a un'ulteriore offensiva. Moltke non si recò alla I armata, ma ora anche l'ottimista Kluck aveva cambiato parere. La sua armata era esaurita, in disordine, e come per il resto delle forze tedesche anche qui il morale aveva subito forti scosse. Kluck aveva dovuto far invertire la marcia a molte migliaia di soldati e a tutto quello che si trascinavano dietro, dalle artiglierie ai trasporti e alle salmerie, e, cosa ancora più difficile, aveva dovuto spiegare questo contrordine agli ufficiali e agli uomini di un'armata che pensava di avere la vittoria ormai a portata di mano. Tutto era andato bene finché la vittoria era stata in vista, ma la ritirata era un altro paio di maniche.
Moltke rientrò esausto al comando supremo. All'interno del suo stato maggiore era andata maturando gradatamente la convinzione che egli non fosse più in grado di dirigere altre operazioni e andasse sostituito. Il problema venne portato davanti al Kaiser, il quale d'altra parte si preoccupò soprattutto che un tale cambiamento non venisse interpretato come il riconoscimento di una sconfitta tedesca, e propose un compromesso che avrebbe salvato capra e cavoli. Era chiaro che, date le sue condizioni di salute, Moltke aveva assolutamente bisogno di un lungo periodo di riposo. Si trattava perciò di continuare a far apparire il suo nome in tutti gli ordini e le istruzioni, ma di togliergli immediatamente ogni responsabilità di comando. E così fu fatto. A partire dal 14 settembre il suo posto venne preso dal generale Erich von Falkenhayn, ministro della guerra. E con il cambiamento di comando si ebbe anche un cambiamento di strategia. Via i piani per una guerra rapida, di movimento, via le illusioni di un'altrettanto rapida e schiacciante vittoria; quella che il comando supremo tedesco si preparava a portare avanti era una guerra lunga, statica, di logoramento.
Per lo meno indirettamente, gli errori delle prime due settimane del settembre 1914 costarono ai tedeschi la vittoria, e molto è stato scritto sulla responsabilità che per questi errori dovevano assumersi un po' tutti gli ufficiali coinvolti nelle operazioni, da Moltke a Hentsch, e giù fino a Bulow, Kluck e Kuhl. È logico che gli strali si appuntassero principalmente contro Hentsch, l'uomo del servizio informazioni portato via dal suo tavolo presso il comando supremo e messo a fare l'emissario del capo dello stato maggiore generale delle forze tedesche.
In Germania venne fatta circolare la voce che lo smacco era dovuto a un ufficiale di stato maggiore sassone che aveva erroneamente dato alle truppe prussiane l'ordine di ritirarsi. Questo ufficiale, di nome Hentsch, era finito sotto la corte marziale, e per questa sua valutazione sbagliata era stato fucilato.
Hentsch continuò a ripetere che non era mai andato al di là delle istruzioni ricevute e che non poteva essere ritenuto responsabile della decisione operativa di von Bulow, il quale aveva deciso la ritirata unicamente in base alla propria paura. Ma Bulow era il generale al quale un tempo si era guardato come al naturale successore di von Schlieffen, e il Kaiser aveva un'alta opinione delle sue capacità militari: chi era Hentsch per metterle in dubbio? Fu solo un anno dopo la sua morte, avvenuta in Romania dove era diventato capo di stato maggiore di un'armata, che Ludendorff ordinò un'inchiesta su tutta la faccenda. Ma lo stato maggiore generale non volle ripudiare uno dei suoi membri, e l'azione di Hentsch venne giustificata col fatto che egli non era andato al di là di quello che era autorizzato a fare. Se la ritirata fosse veramente necessaria o meno era una questione che andava lasciata agli storici di domani.
Ma non è nostra intenzione entrare qui nei particolari di un tale problema, bensì rilevare l'incidenza che in esso ebbe il servizio informazioni. La battaglia non era stata ancora combattuta e il suo esito poteva ancora dipendere dai nervi e dalla volontà dei comandanti delle due parti.
Una cosa comunque è certa: indipendentemente dalla determinazione della responsabilità per quello che accadde, Hentsch, sia per temperamento sia per la sua preparazione e la sua esperienza di ufficiale del servizio informazioni, fu l'uomo sbagliato per i compiti che si trovò ad assolvere.


(*) Tratto da "Gli uomini del servizio segreto. Uno studio sulle personalità e sulle decisioni dei capi dell'informazione dalla prima guerra mondiale a oggi." di Kenneth STRONG, ed. Garzanti, 1973.
(1) Più a sud c'erano l'armata agli ordini del barone von Hausen, anche lui un uomo malato, la IV agli ordini del duca Albrecht di Wùrttemberg, la V nella zona di Metz Thionville agli ordini del Krooprinz, la VI agli ordini del principe ereditario di Baviera Rupprecht, e infine la VII, fra Strasburgo e la frontiera svizzera, agli ordini del generale von Heeringen, ex ministro della guerra.

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